Il monte Giano

La montagna del "DVX"


La montagna di oggi è quella che se sei sopra pensiero o anche se proprio non ti interessa si fa notare per forza, quando percorri la salaria verso Est, venti km dopo Rieti, prima di arrivare ad Antrodoco ti colpisce perché sopra il salto verticale di roccia che sovrasta letteralmente la cittadina, nella pagina sotto l’anticima spicca il monumentale bosco che forma la gigantesca scritta “DVX”. E’ il monte Giano. Questo bosco “poco spontaneo” risale al 1939 quando gli allievi della guardia forestale di Antrodoco, utilizzando una specie estranea alla flora locale, il pino nero, vollero omaggiare l’allora capo del regime; posero a dimora sul versante spoglio qualche migliaio di alberelli per formare la scritta che ancora oggi “impera”. Il bosco ha avuto il suo motivo di esistere durante il regime, successivamente ha vinto la ragione storica ed ha resistito a chi voleva che si lasciasse andare al suo destino, qualche anno fa ha subito anche un restauro per ridisegnarne i contorni ed eliminare i numerosi pini che per disseminazione naturale erano nati negli spazi tra le lettere oppure per piantarne di nuovi dove serviva. Oggi forse servirebbe un nuovo intervento, sopra il profilo della scritta sono molti i “pinetti” che stanno crescendo disordinati. Fatto è che la scritta è ancora lì a sovrastare la piana di Antrodoco, visibile nelle giornate terse invernali fin da Roma. Da Aprilia io e Giacomo, Giorgio dall’Aquila, l’appuntamento è al parcheggio dietro il Santuario della Madonna delle Grotte; come sempre arriviamo prima dell’ora fissata. E’ la classica per il Giano quella di oggi, il sentiero parte dietro il santuario, a poca distanza dalla SS 17 dell’Appennino Abruzzese, un cartello con mappe, foto e descrizioni della zona ed una bandierina bianco rossa del CAI sul muro che delimita la scarpata ne sanciscono l’inizio. Attacca subito con uno strappo ripidissimo, sulla carrareccia, non ci sono sbarre o protezioni, solo una in filo spinato più in altro per non far scendere gli animali, d’altra parte nessuna utilitaria potrebbe avere accesso, solo cingolati, trattori e serissime 4x4. Lo strappo a freddo rimane in gola, per fortuna è breve, quando si attenua e diventa pianeggiante dopo pochi minuti un casolare diroccato sfila sulla destra, i rintocchi vicinissimi della campana tradiscono la presenza del santuario della Madonna della Grotta, siamo esattamente sopra; a circa dieci minuti dalla partenza, sulla larga mulattiera, una palina con dei cartelli indica la direzione per il monte Giano, per la chiesetta Alpina e per il rifugio Cardellini, abbandoniamo la carrareccia e ci infiliamo in una traccia che prende i connotati di un vero sentiero che con qualche repentino facile tornante sale all’interno del bosco di roverelle; attenzione, la palina è piantata su un ometto di sassi, è instabile e potrebbe essere divelta facilmente. Tra tornantini e muretti a secco il sentiero sfila accanto ad un vecchio grosso rudere di casa colonica, lo lasciamo sulla destra; pochi minuti durante i quali la boscaglia diventa un fitto “frattone” e si raccorda poco più su con una ampia carrareccia, non so se la stessa che abbiamo abbandonato poco dietro. Occorre tenere in mente l’incrocio dove il sentiero si raccorda con la carrareccia pianeggiante, poco sulla sinistra ci sono delle colonnine che reggono un cancello aperto, tornerà utile al ritorno per imboccare l’ultimo tratto di sentiero in discesa; al bivio prendiamo a destra, siamo intorno agli 830 mt s.l.m., lasciamo a sinistra una capanna in lamiera ormai ridotta a rudere mentre davanti ci si inoltra per circa centocinquanta metri in un’ampia radura già con ampia vista sulla corona del monte Giano. A circa quindici, venti minuti dalla partenza, circa centocinquanta metri dopo la capanna in lamiera diroccata, appena prima di entrare in un bosco basso di roverelle e ginepri una seconda palina, con le stesse indicazioni della precedente, anche questa in bilico su un ometto di pietre, indica uno stretto sentiero, che scivola all’inizio tra fitti cespugli di ginestre; da qui in poi non ci sono più deviazioni importanti, abbiamo seguito la traccia principale ed è iniziato un viaggio sorprendente per una escursione sicuramente molto remunerativa e al di sopra delle aspettative. Ma andiamo per ordine. Dopo il breve tratto iniziale dove è possibile infilarsi in tracce che non portano direttamente alla vetta, il sentiero principale si fa marcato e soprattutto senza più incroci, le ginestre ben presto lasciano il posto ai ginepri e la querceta di roverelle si dirada un po’. Si sale costantemente, tra frequenti tornanti sassosi, muretti a secco e lunghi tratti rettilinei scontornando verso Nord la montagna, i panorami sono ancora chiusi dai boschi circostanti e solo la calotta innevata del Nuria riluce nei raggi ancora deboli e trasversali di un pallido sole che fatica a vincere la leggera coltre nuvolosa. Si continua a salire su un agevole sentiero sassoso, i frequenti tornanti aiutano a superare il dislivello, i lunghi traversi agevolano l’aggiramento del versante, la pendenza è a tratti considerevole, sempre e comunque insistente. Salendo ancora, intorno ai mille metri di quota, i ginepri lasciano il posto ai sparuti alberi di pino nero, che nel bosco ancora invernale di querce si fanno notare per il color verde cupo; a macchie stanno colonizzando la querceta, probabilmente il vento ha traportato i semi dal bosco lassù in alto, probabilmente anche gli uccelli hanno contribuito; chissà se nella testa degli ingegneri forestali del tempo questa “contaminazione” fosse stata prevista? Si esce dal bosco, che nel frattempo ha sostituito la presenza delle querce con quella di bassi faggi, intorno a quota 1300 mt, il bosco cessa, di fronte si materializzano le vette dei Reatini, tutta la cresta dell’Elefante fino al Ritornello e dietro la muraglia del Terminillo, ovviamente tutti in veste ancora invernale, il sentiero si fa ghiaioso per pochi tornanti ed entra in un pianoro erboso; finalmente la vista spazia, la corona rocciosa del Giano è più vicina e si profila nel cielo diventato azzurro, il bosco di Pini neri, la fascia sotto la scritta DUX è vicina e molto folta, la scritta più in alto si intuisce appena. Verso Ovest, oltre al Nuria e alle creste imbiancate dei Reatini si percepisce il vuoto della valle sottostante che divide i due versanti; avanziamo per pochi minuti fino a scoprire la sagoma minuta della chiesetta abbarbicata sul limite della rupe. Una visita è d’obbligo, la cappella è minima, graziosa ed essenziale, un altarino tra due piccole finestre, una statua della Madonna e quello che sembra un messale è invece un libro firma; sulla facciata una targa, la dedica agli alpini di Antrodoco che non sono tornati dalla guerra. Graziosa al di là dei simboli, abbarbicata sul limitare dello strapiombo, domina Antrodoco, che laggiù in fondo sembra più grande di quanto abbia potuto immaginare tutte le volte che sono passato lungo la Salaria. Il salto è repentino, violento, sono poco meno di settecento i metri che ci separano dal paese; la Salaria, il fiume Velino, la sinuosità della valle che si apre e si chiude in tutte quelle piane agricole quasi fino a Rieti, conosco a memoria ogni curva ed ogni dettaglio, gradarlo da quassù mi restituisce quella tridimensionalità che mi è sempre sfuggita. Tutte le prossime volte che sarò sulla Salaria da queste parti la mia fantasia continuerà oltre quelle linee di cresta boscose che precludono l’orizzonte; ora la mia fantasia tutte le volte salirà fino al Terminillo, passando da Terminilletto, collocherà Micigliano alle falde dell’Elefante e non sarà più solo una indicazione su un cartello stradale, mi sembra di star dare un’anima a questo territorio tanto frequentato e devo dire poco conosciuto se non nelle sue cime più alte. A trecento metri dalla chiesetta, salendo verso il bosco, verso Nord, è posto il bel rifugio intitolato a Cardellini Giuseppe, per la storia un pastore e cavaliere di Vittorio Veneto. A metà tra il salto di roccia e la fascia boscosa di pini neri, domina la valle e l’orizzonte fino a Roma, se fosse limpido; recintato ordinatamente è un punto di appoggio per molti, viste le suppellettili ordinate di cui è dotato. Appartiene ad un privato che di fatto lasciandolo aperto lo dona a tutti gli avventori appassionati del Giano; è dotato di ogni confort, sia all’interno che all’eterno e l’ordine e la pulizia sono sovrane. All’interno due brande a castello, un camino con i resti di un fuoco recente, un tavolo per mangiare e tante foto, cimeli, appesi alle pareti, l’ambiente è davvero caloroso e confortevole, fuori un barbecue, griglie appese sotto lo spiovente del tetto, un lavello con una pompa a mano per attingere acqua dalla cisterna attigua al rifugio, attenzione l’acqua non è potabile, stoviglie e accessori per la cucina, c’è tutto per godersi un bel pomeriggio in compagnia. Davvero uno dei più bei rifugi dell’Appennino, piccolo ma confortevole e se pensiamo che è aperto a tutti e quindi fuori controllo mi viene quasi di pensare ad un miracolo. Evidentemente è difficile deturpare il bello, anche per i più disattenti, per i maleducati e irriverenti questo piccolo capolavoro di cooperazione rappresenta un totem intoccabile. Da prenderci esempio. Ripartiti dopo la sosta mangereccia riprendiamo a salire, percorriamo la traccia di calpestio sull’erba che dal rifugio fila verso lo spigolo nord del bosco di pini, da lì il sentiero si inerpica, traversa, si avvita su tornanti larghi, lo seguiamo per un po’ poi decidiamo di salire diretti favoriti anche da un terreno decisamente scalettato, ci riavviciniamo al bosco e superando la fascia basale cerchiamo di intuire la famosa scritta; intuiamo di essere sul lato della “D” ma ad essere sinceri si distingue poco o nulla da dove siamo. Il pendio si fa ancora più ripido fino ad incrociare una leggera dorsale che supera un piccolo boschetto di faggi, lo aggiriamo, la croce già visibile dalla chiesetta appare ora molto vicina. L’ultimo strappo è su un pendio ripido ed erboso, non ci sono più i gradoni della prima parte e si continua a salire a vista verso la croce. Bianca e sottile ricorda quella del monte Viglio, un pochino più minuta, domina Antrodoco e la valle ma non sancisce la vera vetta del monte Giano, siamo solo a quota 1780 mt., i 1820 mt. della vetta sono sul “tondo dosso” verso Nord-Est che è già ben visibile a circa mezzo chilometro da dove siamo. Una sella in mezzo da scendere e risalire, ancora imbiancata fa il paio con i panorami che si vanno aprendo verso est. In vetta un ometto di pietre, c’è conficcata e instabile una palina con una tabella rubata al percorso, indica 10 minuti alla vetta, qualche burlone, evidentemente in carenza di simboli, deve averla raccolta e ricollocata in vetta; poco metri più in là verso EST, quasi sul filo di cresta a terra c’è anche un piccolo segnale trigonometrico. Il cielo ora libero da nubi e la giornata tersa consentono una vista incredibile, i diversi gruppi montuosi formano un arco imbiancato, dal vicino Terminillo ai Sibillini per continuare con la Laga ed il Gran Sasso, dietro al vicino monte Calvo si impongono la Majella e il Velino, si chiude il girotondo con il Viglio più lontano e con il Nuria, ormai costante e vicina presenza fin dai primi passi della giornata. E chi si immaginava un a vista del genere da questa montagna!!?? La montagna è bella sempre, ogni stagione ha la sua peculiarità, ma in inverno, quando ti trovi al cospetto di orizzonti così lontani e puliti, quando le sagome bianche esaltano ancora di più i contorni di ciò che già conosciamo bene, è di più. Affascina, ti entusiasma, ti restituisce in emozioni interiori più di quello che spendi per raggiungerle. Rimaniamo in vetta una mezz’oretta, mai sazi di tutto quello che avevamo attorno, fotografiamo tutto e di più nonostante l’esperienza insegna che dovremo far tesoro più di ciò che viviamo e vediamo che di quello che fotografiamo. Ritorniamo sui nostri passi per la stessa via dell’andata, aggiriamo l’anticima per evitare altre salite, non ritocchiamo così la croce; decidiamo di scendere al pianoro attraverso il bosco che forma la scritta DUX, per curiosità e per quella sorta di empatia verso ciò che se pur discusso rimane pur sempre un segno della nostra storia recente. Ci riportiamo verso Sud incrociando la linea di salita, senza sentiero affrontiamo la poca neve rimasta e la discreta pendenza del versante, approdiamo al bosco sopra la lettera “D” che nel complesso non si intuisce, si nota però il contorno tondeggiante della lettera, come si nota lo spazio che la divide dalla “V” e la linea rettilinea obliqua degli alberi che formano la seconda lettera. Entriamo nella “V”, in larghezza le lettere sono strette, in altezza raggiungono circa i 200 mt, usciamo subito negli spazi aperti tra questa e la “X”; si percepiscono le due diagonali che formano anche questa lettera. In mezzo alle lettere un mare di legna resti di antichi tagli, probabilmente i segni dell’ultimo “restailing”. Scendiamo fino alla fascia vuota di vegetazione, una ventina di metri che la dividono dalla base dalla scritta, rettangolare più fitta ed intricata, sempre di pini neri. Siamo scesi senza sentiero, percepisco una sorta di emozione strana, da parte mia il rispetto per un lavoro antico, stupido quanto volete ma pur sempre simbolo di una passione e di un periodo storico è grande. Dentro il bosco che compone la fascia gli orizzonti si chiudono, scendiamo verticali per raggiungere il pianoro a sinistra della chiesetta; nel mezzo intercettiamo un sentiero che lo taglia nettamente da Nord a Sud, lo prendiamo verso Sud e finiamo per uscire dal bosco all’altezza del sentiero che lascia il pianoro e che riprende a scendere. Ora sui vecchi passi non rimane che “rotolare” verso valle, per un po’ ci raccontiamo della entusiastica giornata e della sorpresa che ci ha riservato questa montagna, poi la fame, la stanchezza forse o semplicemente la consapevolezza che non c’era più nulla da raccogliere hanno fatto scendere il silenzio. Veloci superiamo tutti i tornanti, la strada a valle sembrava non avvicinarsi mai, poi i cespugli di ginestre, la prima palina e la svolta a sinistra, la capanna in lamiera diroccata la lasciamo ora a destra, poco oltre il cancello aperto, pochi metri prima la deviazione a sinistra senza palina, solo una sbiadita bandierina a terra; ancora tornanti, la casa diroccata che sulla sinistra sfiora il sentiero e l’ultima carrareccia da prendere sempre a sinistra; quando a dieci metri dal sentiero, ancora a sinistra, sfiliamo accanto ad un altro rudere siamo ormai arrivati, lo strappo in salita all’inizio del percorso è ora un discesone senza freni, troviamo il cancello in filo spinato chiuso, la mattina era aperto. Fine dei giochi, ritorno a casa, sul monte Giano potevamo davvero salirci prima, non è esattamente quella che si dice una montagna secondaria; unico consiglio per portarsi a casa tutto, ma proprio tutto, andarci in una bella giornata dagli orizzonti puliti. Vi sentirete di aver ricevuto un regalo.